Lodovico Cardellino (Independent Scholar)
Dante Notes / November 9, 2025
Pièta nella Commedia ha sempre il significato di tormento, angoscia, affanno.
Sono cinque casi, tutti in Inferno. Il più interessante è l’ultimo:
in Inf 26.94-96 Ulisse racconta che “né dolcezza di figlio, né la pièta / del vecchio padre, né 'l debito amore / lo qual dovea Penelopé far lieta”, le cose amate più caramente, poterono vincere il suo ardore di conoscere i vizi umani e il valore.
Non è così: pièta non è pietà né pietas (come traducono quasi tutti, ignorando il significato della parola nelle altre occorrenze del poema), bensì tormento, del padre che aspetta; così il debito amore è quello della moglie fedele che deve averne letizia, e la dolcezza è del figlio lasciato piccolino: sono le tre attrattive, tre fatti esterni, che dovrebbero indurre tre forti affetti, ma non lo fanno.
Che mi risulti, lo ha notato solo Hollander[i]: “When we examine the prologue to this thought, in which he denies his family feeling for Telemachus, Laertes, and Penelope in order to make his voyage, we may begin to see the inverted parallelism to the hero whom he would emulate and best, Aeneas, loyal to Ascanius, Anchises, and Creusa. If Ulysses is venturesome, Aeneas is, as Virgil hardly tires of calling him, pius, a 'family man' if ever there were one”. Ma nella Commedia non lo presentano così né Virgilio, né Dante. Né Hollander esprime pareri sul senso di pièta né in questo né negli altri casi: ha intuito il vero senso della terzina, senza farne un’analisi critica.
Anche nelle citazioni dei versi e nelle traduzioni del poema in altre lingue viene abolita l’incertezza lasciata (volutamente?) da Dante, di figlio, del vecchio padre, esplicitati in per il figlio, per il padre.
A. Lanci, in “PIETA”, ED, solo nell’ultimo paragrafo cita «La forma nominativale ‛pièta’» e segnala pochi autori secondo cui vale più spesso tormento, angoscia, affanno, ma conclude che «la pièta / del vecchio padre ha il significato di ‘devozione filiale’».
Jacopo della Lana: la dolcezza di vedere lo figliuolo, pietà di soccorrere lo padre, debito amore, il quale si dee avere alla mogliere;
Guido da Pisa: illa que ipsum debebant inducere ad gubernandum filium parvulum, patrem senem, et uxorem iuvenem atque solam (quelle cose che lo dovevano indurre a curarsi del figlio piccolo, del padre vecchio, della moglie giovane e sola);
Ho citato i primi due; tutti gli altri (tranne Hollander) sono simili, e intendono pièta come pietà.
Solo Lombardi ammette la possibilità che pièta indichi qui anche la tristezza del padre, prevista da Ulisse nel caso del suo mancato ritorno.
Porena è il più esplicito nell’errore comune: “Pièta: amore in cui c'è anche rispetto, di figlio a padre. Altri intende per pieta il dolore del padre di avere il figlio lontano; ma è evidente che qui Ulisse enumera sentimenti suoi”. Dobbiamo pensare che abbia letto o udito altri che ne dubitano, ma lui non li cita, e cercando in Dartmouth Dante Project i passi che per i commenti a questo verso contengano la parola dolore, evidenziata da Porena, è risultato solo il suo.
Sarà utile verificare il senso di pièta nelle altre quattro occorrenze del poema, per poi approfondire il caso di Ulisse; ma poiché ho citato Porena anticipo subito un’altra sua considerazione: Dante inizia il canto con una forte invettiva contro Firenze, cui prevede una rovina che spera imminente, "da che pur esser dee! / ché più mi graverà, com più m'attempo". Porena spiega che "l'amore nostalgico alla patria cresce con l'età". Lo capisce dunque! Tuttavia ammira Ulisse che, proprio alla vigilia della morte, decide di rinunciare alla patria per seguire virtute e canoscenza. Si confronti con la profezia a Dante: "tu lascerai ogni cosa diletta / più caramente; e questo è quello strale / che l'arco de lo essilio pria saetta": quando scriveva di Ulisse, Dante era fresco della ferita di questo strale.
Vediamo ora il senso di pièta nelle altre occorrenze:
“la notte ch'i' passai con tanta pièta” (Inf 1.21) rievoca l'angoscia di quella notte. Dante si ritrovò in una selva; ora, al termine del viaggio, vuole parlarne, anche se dir qual era è cosa dura e tanto amara che poco è più morte. Dunque passò la notte con pièta: paura, affanno, angoscia.
Buti intende: “con tanto lamento che ne serebbe d'avere pietà [da parte di altri] et è colore rettorico che si chiama denominazione, quando si pone lo susseguente per lo precedente”.
Boccaccio: “con tanta afflizione, sì per la diritta via la quale smarrita avea e sì per lo non vedere, per le tenebre della notte, donde né come egli si potesse alla diritta via ritornare”. Ma c’era la luna piena (‘tonda’), come ricorda Virgilio in Inf 20.127 e Dante in Purg 23.119.
Landino: “pietà chon accento grave nell'ultima syllaba et significa compassione; pieta con accento acuto nella penultima, et significa lamento apto a commuovere compassione”.
È contrario Gabriele: “invano s'affatica il Landino in voler trovar differentia tra pièta e pietà. Pièta, adunque, compassione ch'io di me stesso presi”. Così Daniello e Tasso, citando a conforto Petrarca e ignorando gli altri passi di Dante.
“non odi tu la pièta del suo pianto?” (Inf 2.106) disse Lucia a Beatrice. Questa, quando ascolta (o vede), prova pietà, ma prima deve udire o vedere il tormento (la pièta) di Dante o del suo pianto. Dante lo conferma al termine del racconto di Virgilio, esclamando “Oh pietosa colei che mi soccorse!”; Beatrice ha udito solo tramite le parole di Lucia la pièta del pianto di Dante, ma ne ha provato subito pietà: mi pare un bell’esempio (forse voluto) di immediato confronto fra il diverso significato di pièta e pietà.
“Or discendiamo omai a maggior pièta” (Inf 7.97): il resto del canto è dedicato a descrivere i tormenti di irosi e accidiosi, maggiori dei precedenti, senza pietà verso chi del fango ingozza.
Ricordiamo che la Vita Nuova si concludeva con la visione che sarà al centro del poema e con l’impegno da parte di Dante di dedicare il resto della vita a prepararsi per cantare degnamente tale visione, avvenuta in Eden. Perciò il viaggio comporta svariate prove poetiche: abbiamo visto il linguaggio stilnovista parodiato da Francesca, quello realista di Ciacco e di Dante, all’inizio di questo canto quello diabolico di Pluto, privo di alcun senso se non, forse, quello della stupidità cui riduce l'avidità della ricchezza; ora il linguaggio dei gesti irosi e quello degli accidiosi, immaginato da Virgilio collegandolo al pullular dell’acqua, entrambi illustrati dai versi duri e aspri di Dante.
“A la man destra vidi nova pièta” (Inf 18.22): nuova pena (non pietà!), vista nel verso successivo nelle due parti, “novo tormento e novi frustatori”.
Così solo Castelvetro: passione (non compassione), come in 1.21, spiegata nel verso seguente.
Due similitudini sono sviluppate con umorismo, per contrasto più che per analogia: i fossi a difesa dei castelli digradano verso l'esterno e non, come qui, verso il centro, e la gente a Roma cammina sopra il ponte, qui invece sotto, nella fossa.
Siamo sulle prime due bolge di Malebolge; la scena diventa presto comica; non c’è pietà, per peccati che non la meritano, ma solo grottesco spettacolo, variamente caratterizzato: doloroso, pietoso, orribile, angoscioso, di dolore. A me non sembra pietoso. I demoni frustano i dannati facendoli correre (levar le berze: le calcagna). Dante gioca sulla rima nel dire che i dannati corrono per evitare le seconde percosse e le terze: è tutto canzonatorio.
Con Ulisse Dante mette alla prova le proprie capacità di seduzione, avvertendo prima, a lungo, che sta proponendoci un abbaglio; dopo il rimprovero a Firenze, il dolore per ciò che vide e l’impegno a frenare il proprio ingegno, “perché non corra che virtù nol guidi”: la virtù sarà citata da Ulisse ai compagni nel consiglio ingannevole (anche per sé), ma seducente: “fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza”.
La similitudine con il villano suggerisce che la luce dell'ingegno è ridotta a lucciole, che, pur numerose, illuminano così poco che il villan ch'al poggio si riposa non riesce neppure a capire se si trovano nel proprio campo (colà dove vendemmia e ara): fa perder di vista anche la propria terra.
Le fiamme: “nessuna mostra 'l furto, / e ogne fiamma un peccatore invola”: il "volo", proprio degli uccelli di rapina (il significato di furto, perduto in italiano, è conservato in francese) e dell'ingegno, che dovrebbe innalzare al cielo; “invola”, nasconde il "furto".
Dante è già affascinato, tanto che "caduto sarei giù sanz'esser urto".
Virgilio cita i propri versi, "si bene quid de te merui", ma non aveva affatto meritato per Ulisse: "Sic notus Ulisses?", "Timeo danaos et dona ferentes!".
Ulisse parte proprio dai versi dell'Eneide (“prima che sì Enea la nomasse”). Affascina, seduce chi lo ascolta; vari cenni possono suggerire dubbi, ma sono trascurati: “per l'alto mare aperto” (per conoscere i vizi umani e il valore?); “vecchi e tardi”, quando più si sente nostalgia della patria! Volge la poppa (non la prua) nel mattino. Infine il superbo volatore, per dire che sprofonda, prima dice che la poppa si solleva.
Basta leggere i commenti all'episodio per verificare quanto sia stato persuasivo. Nel canto successivo Dante, consapevole di averci ingannati, forza la sua lezione: dopo che Ulisse "da noi sen gìa / con la licenza del dolce poeta" risulta che il dolce poeta lo licenziò con parole sprezzanti, “Istra ten va; più non t'adizzo”. Sono state proposte molte spiegazioni del cambio di atteggiamento di Virgilio e del significato di queste parole. Hollander[ii] conclude la sua indagine sulle varie ipotesi segnalandone una recente, proposta da un suo studente: che si tratti di ira di Virgilio provocata da ciò che ha detto Ulisse. While it may itself be suspect, as possibly another such surmise, I think it "works". It is presented here for further reflection. E un’ulteriore riflessione arriva puntualmente da Pertile[iii], secondo cui Virgilio non è adirato, semplicemente perché Ulysses does not say anything offensive.
Eppure le parole esaminate da Hollander e poi discusse da Pertile hanno certamente uno stile assai diverso da quelle, alte e formalmente rispettose, ma di fatto ingannevoli, con cui Virgilio, nel canto precedente, aveva invitato Ulisse a parlare. Se non c’è motivo per cui Virgilio debba aver cambiato tono, certamente ce n’è per Dante, che vuole far capire ai lettori che Ulisse inganna i compagni, e in definitiva anche se stesso, nel consigliare il folle volo. Spesso Virgilio coglie e interpreta pensieri e desideri di Dante, come quando per invitare Ulisse a parlare lo sostituì dicendogli “Lascia parlare a me, ch'i' ho concetto / ciò che tu vuoi”; possiamo supporre che anche qui abbia usato nel licenziarlo il tono e le parole che avrebbe usato Dante…
Anche Ulisse, nel suo ultimo discorso ai compagni, usa parole e idee che avrebbe usato Dante; cioè Dante gli presta le sue idee per renderlo più convincente[iv], mentre le prime parole di Ulisse sono chiaramente ambigue e ingannevoli per chi ha letto con attenzione il poema riconoscendo il senso di pièta, che, come abbiamo visto all’inizio, non può indicare amor filiale; per analogia neppure la dolcezza del figlio né il debito amore della moglie possono indicare sentimenti suoi, vinti da amor di canoscenza. Anche questa donque, che Dante prova intensamente e segnala spesso nel poema, diventa sospetta nel discorso di Ulisse in cui, come ha osservato Pertile, prevale il gusto per l’avventura.
[i] Ove non sia indicato diversamente, la fonte dei commenti citati è Dartmouth Dante Project.
[ii] Robert Hollander, "Istra ten va, più non t'adizzo": a new hypothesis Inferno 27.21, 5 May 2007.
[iii] Lino Pertile, Virgil is not angry. A note on Inferno 27.21, 13 December 007.
[iv] Domenico Consoli, “Conoscenza” e Mario Fubini, “Ulisse”, in ED.